Roma tra diseguaglianze sociali e processo di integrazione
Intervista a Mario Lentano, Università degli Studi di Siena
29 gennaio 2022
Tre studenti al terzo anno del Liceo Classico Massimo D’Azeglio di Torino, Vittoria Alberti, Fabrizio Ingrassia, e Giovanni Serra, intervistano Mario Lentano, professore di Lingua e letteratura latina presso l’Università di Siena, all’interno delle attività di PCTO che il liceo svolge con il Club di Cultura Classica “Ezio Mancino” ONLUS. Il professor Lentano mercoledì 2 febbraio terrà la conferenza “Romani razzisti? Orgoglio e pregiudizio nell’antichità” per il Club (per partecipare gratuitamente all’incontro, che si terrà alle ore 18 su Zoom, è possibile cliccando sul pulsante sottostante).
(Fabrizio Ingrassia): In quale momento dei suoi studi e perché ha deciso di interessarsi principalmente alla cultura latina, rispetto per esempio a quella greca?
Sia il latino sia il greco sono lingue e culture straordinariamente affascinanti e credo che la predilezione per l’una o per l’altra nasca dal fatto che ci si riconosca di più in certi aspetti o in certe forme propri di ciascuna.
Personalmente, ho sempre avuto una passione particolare per il latino, soprattutto come lingua, perché possiede alcune caratteristiche che trovo affascinanti, come la sua densità. Infatti è una lingua che riesce a esprimere concetti complessi, ma anche sfumature raffinate del discorso, in una forma fortemente contratta, cosa che la rende ai miei occhi particolarmente interessante.
Questo, peraltro, pone una sfida molto intrigante per il traduttore, che deve riuscire a sciogliere ciò che il latino tende a compattare e a trasporlo in un codice linguistico diverso, quello italiano, molto più sciolto e analitico, cercando però al tempo stesso di non perdere nulla della ricchezza dell’originale.
Naturalmente, un appassionato di greco potrà con altrettante e migliori ragioni sostenere che la lingua greca ha degli elementi di fascinazione uguali o persino maggiori di quelli che io intravedo nel latino. Si tratta semplicemente di una questione di sensibilità personale perché, come in una relazione, ci si innamora di qualcosa che sembra rispondere alle nostre aspettative e alla nostra idea di bellezza.
(Vittoria Alberti): Come mai ha scelto questo titolo per l’incontro? Limitando il discorso alla cultura classica, qual è il limite/discrimine per considerare un’opera razzista e quanto è necessario considerare il contesto e l’epoca di scrittura dell’opera?
Il tema mi è stato suggerito da fenomeni culturali che mi è capitato di osservare, soprattutto all´interno della cultura accademica americana.
Sempre più spesso in tempi recenti sentiamo dire da esponenti di quel mondo che le culture dell’antichità sono ricettacoli di nefandezze, in particolare sul piano delle diseguaglianze sociali, e di per sé queste critiche sono corrette: si pensi ad esempio alla diffusa pratica dello schiavismo in quelle culture o alla discriminazione nei confronti della donna, che nella società greca era addirittura costretta alla reclusione in un apposito quartiere della casa (il gineceo), e alla sua scarsa rilevanza socio-politica.
Di fronte a tali fenomeni si può concordare che non è possibile rendere queste civiltà dei modelli di perfezione inarrivabili, ma non è neppure corretto demonizzarle. Al contrario, l’atteggiamento giusto da assumere non può mai essere quello di smettere di studiare gli antichi, adottando le sbrigative soluzioni di quella che non a caso è stata definita cancel culture. Oltre tutto, un esame accurato dei testi antichi porta a concludere che Greci e Romani non sono mai stati razzisti, almeno se diamo a questo termine il significato che ha assunto a partire dalla seconda metà dell’Ottocento: gli antichi hanno certo emarginato gli stranieri ed elaborato stereotipi sul loro conto, ma non hanno mai creduto che gli individui appartenenti a determinati gruppi umani possedessero caratteristiche intrinseche che li rendevano inferiori ad altri e che derivavano loro da niente altro se non dal fatto di essere membri di quei gruppi. La storia non serve a esprimere giudizi sommari, ma a capire civiltà e culture diverse dalla nostra.
(Giovanni Serra): Roma antica può fornire alla società di oggi un modello positivo d’integrazione?
Non amo particolarmente che si usi la parola “modello” a proposito del mondo antico, perché innanzitutto non c’è niente di meglio per rendere una cultura antipatica che proporla come modello o esempio al quale ispirarsi, soprattutto quando la si pone a degli studenti. Ora, i Greci e i Romani sono stati presentati molto a lungo come modelli da imitare e la loro cultura, la loro arte, ma anche la loro letteratura e la loro visione del mondo sono state spesso considerate come esemplari. I vari classicismi che si sono succeduti, in fondo, non sono stati altro che questo: l’idea che i Greci e i Romani rappresentassero un vertice assoluto e quasi inimitabile di civiltà e di bellezza, al quale i moderni dovevano cercare di avvicinarsi. Io credo però che questo sia un modo ormai superato di guardare al mondo antico, che invece può essere considerato più utilmente come un interlocutore. Può essere una cultura, una civiltà alla quale noi chiediamo: «Tu come hai fatto? Come hai affrontato questo problema?». Per esempio, anche la società romana si è posta la questione di come comportarsi con gli stranieri o con chi veniva di volta in volta assoggettato dall’impero. Bisognava trattarli come dei sudditi o addirittura ridurli in schiavitù? O bisognava cercare in qualche modo di integrarli? Si può ben vedere quindi che anche i Romani hanno dovuto affrontare dei problemi non troppo dissimili da quelli che abbiamo affrontato noi. E hanno scelto di risolverli attraverso la via dell’integrazione, che consisteva nel progressivo allargamento della cittadinanza romana. Si tratta di una loro caratteristica originaria, che inizia con Romolo. Il fondatore di Roma, infatti, sarebbe stato il primo a concedere la cittadinanza romana ai Sabini e agli altri popoli che di volta in volta aveva sconfitto. Questo processo è durato per un millennio, fino ad arrivare al III secolo d.C., all’epoca dell’imperatore Caracalla, quando la cittadinanza romana viene estesa a tutti gli abitanti dell’Impero. Si tratta di un millennio di storia in cui l’integrazione non è stata continua, ma ha conosciuto battute d’arresto e passi indietro: per esempio, è stato necessario per gli Italici combattere una guerra per ottenere la cittadinanza, nonostante si trattasse di popolazioni con le quali i Romani erano in rapporto da secoli.
Se però noi guardiamo dall’alto la storia di Roma, ci accorgiamo di un fenomeno impressionante: si parte da una situazione in cui i Romani sono un gruppo di persone raccolte intorno al proprio fondatore e si arriva, alla fine di questa lunghissima parabola, a un’altra situazione nella quale sono cittadini romani gli abitanti della Britannia come quelli dell’Egitto, gli abitanti della penisola Iberica come quelli dell’attuale Medio Oriente. Intorno al Mediterraneo esiste uno spazio in cui le popolazioni sono accumunate dal fatto di essere composte da cittadini romani, in cui tutti sono dotati delle stesse prerogative giuridiche, degli stessi diritti e degli stessi doveri. Questo è un modello? È una possibilità, ma non è detto che sia la migliore. È un modo però in cui una civiltà matura, una civiltà adulta come quella romana ha affrontato il problema di come comportarsi con chi è straniero. Noi dobbiamo fare come hanno fatto i Romani? Difficile dirlo, perché duemila anni non passano invano; il nostro mondo, il nostro tempo, la nostra civiltà sono per tanti aspetti diversi da quello che i Romani avevano conosciuto. Come detto già precedentemente, i Romani possono essere degli interlocutori e suggerirci la loro soluzione. Poi, però, spetta a noi trovare una strada, che non potrà che essere diversa da quella degli antichi.